Gestione del Brand – Intervista a Giovanni Cavaliere

Il punto di partenza per ogni attività imprenditoriale, qualunque essa sia, è sempre e solo uno: il brand. Sì, perché il brand è lo strumento di differenziazione dalla concorrenza, è ciò che ti farà entrare nella mente del consumatore e soprattutto rimanerci. 

Il libro [amazon_textlink asin=’8857908046′ text=’Gestione del brand e della reputazione’ template=’ProductAd’ store=’antoniosavare-21′ marketplace=’IT’ link_id=’0f89af08-5f6f-11e8-9d50-9302a4d5acc8′] fornisce utti gli strumenti essenziali (modelli, software, esempi), oltre a numerosi case-study e contributi dei migliori professionisti italiani, per incrementare il  business. 

Oggi avere un brand forte determina il successo o meno di un’azienda. I piani di marketing e le campagne sono inefficaci se la marca non è stata costruita seguendo i modelli e i principi di base che hanno determinato il successo di migliaia di imprese nel mondo.

È quindi importante, prima di iniziare tutte le attività di advertising e di strategia, disegnare il proprio brand e mettere in atto quelle azioni che permettono di monitorare in modo efficace anche la reputazione sul web.

Perché la reputazione è ciò che le persone capiscono e percepiscono, è l’idea che pian piano si fanno di te e della tua azienda. Brand e reputazione sono i due fattori che determineranno il successo del tuo progetto.

Ho intervistato l’autore del libro Giovanni Cavaliere:

Affermi che il punto di partenza di ogni attività dovrebbe essere il brand perchè?
Il vero marketer sa che la percezione ed il posizionamento nella testa del consumatore è una cosa che viene prima di ogni altra attività. Il perché è chiaro e faccio un esempio per capire subito: è inutile creare un ecommerce di prodotti di alta qualità (tra l’altro, valore ormai privo di significato poiché abusato) se, prima, non ho intercettato un target preciso, non ho risposto ad un bisogno specifico e, quindi, non ho costruito un brand che venga percepito in modo positivo e distinguibile rispetto ai competitors. Ogni altra attività (es: pubblicità) servirà a poco se la comunicazione è confusa, è frammentata, si basa su valori non rilevanti per il target e se non vi si riesce a comunicare quelli che sono i valori e le caratterizzazioni del brand. 

Qual è la metodologia che dovrebbe seguire un’azienda?
La metodologia parte sempre dalla risposta ad un bisogno specifico ed espresso di un consumatore. Si identifica quindi una segmentazione ed un target. Infine, una volta che è chiaro il contesto, si passa alla costruzione del brand che è un processo non semplicissimo ma neanche difficilissimo. Per esempio, si studia la proposizione di valore dei competitors, si cerca di differenziarsi da essi e si costruisce una scala di valori (oltre al fatto che si deve creare una visione ed una missione dell’azienda) che guiderà tutte le attività future di branding dell’azienda. 

Come è cambiata la reputation con l’avvento del web? 
Tantissimo. Credo sia uno degli aspetti davvero importanti oggi come oggi, non solo per grandi aziende ma anche per piccole. Basti pensare che oggi come oggi chiunque può infangare un’azienda sul web o può creare una crisi reputazione. Basta davvero poco: un post che diventa virale, una serie di esperienze negative etc. Pensiamo ai ristoranti, agli hotel … nei primi anni di internet e con l’avvento dei social, molte aziende non erano preparate ed hanno subito (con conseguenze disastrose sul fatturato) questo cambio: il potere è passato dalle aziende ai consumatori, che sono diventati i veri attori importanti del business aziendale. 

Le aziende hanno percepito il cambio di paradigma o ancora no?
Le aziende tendenzialmente hanno preso coscienza del problema. Ma bisogna fare una distinzione ovvero, tra medio-grandi aziende e piccole. Le medio-grandi, ultimamente, stanno creando delle figure specifiche della reputazione (reputation manager) e quindi si sono dotate di tutti quei software per ascoltare le discussioni sul web. Quelle piccole, invece, al massimo hanno un consulente che gestisce i canali social. Ovviamente i volumi di discussione sul web sono ben diversi ma un consulente che non conosce i meccanismi della reputazione e della gestione delle crisi può trovarsi in seria difficoltà. Inoltre, anche le piccole aziende è bene che creino documenti, prassi ed abbiano un software anche basic di ascolto del web per poter intervenire tempestivamente e correggere eventuali errori. 

Puoi citarmi qualche case history positiva e negativa?
Una case history positiva è senz’altro quella di Plasmon, come racconto sul mio libro. Ovvero, di un’azienda che ha da sempre utilizzato l’olio di palma nei suoi biscotti ed ha tempestivamente ascoltato il web ed il diffusi di discussioni contro questo tipo di prodotto. Il risultato è stato quello di aver creato un prodotto senza olio di palma che dal target di riferimento veniva percepito in modo davvero negativo (poiché erano biscotti destinati prevalentemente a bambini). Quindi questo è sicuramente un buon caso studio di come il listening del web faccia bene alle aziende che si trovano pronte a rispondere in modo adeguato. 
Case history negativa, invece, ce ne sono davvero tante anche in Italia. Mi viene in mente un post di Radio RTL in cui parlava di licenziamenti dell’azienda di GoldenPoint e poi ha iniziato a cancellare i post degli utenti ed addirittura il post incriminato, creando un effetto boomerang incredibile. Oppure il caso Patrizia Pepe, nel 2011, che ha pubblicato una foto di una modella molto magra ed ha scatenato discussioni sul problema dell’anoressia, compromettendo molto il brand negli anni successivi a livello di immagine e filosofia aziendale. Insomma, quando si comunica online bisogna stare attenti e pensare ad ogni piccola conseguenza. 

Nel tuo libro dai anche molti consigli pratici, tools da utilizzare etc….dacci qualche preview?
C’è ampio spazio di case history e di tool utili per ascoltare la rete. Per esempio, si può utilizzare Google Alert o Talkwalker alert, che sono totalmente gratuiti e ci permettono di ricevere notifiche email quando in rete (escludendo i social) compaiono news che riguardano le keywords che ci riguardano,  oppure software più sofisticati come Mention, Sysomos, Brandwatch e tanti altri che permettono invece di monitorare tutto il web ed i social media, di classificare le discussioni e capire il sentiment delle discussioni.

Ultima cosa, oltre le aziende con il fenomeno degli influencer si è sviluppato molto anche il settore del personal branding……dal tuo punto di vista cosa vedi?

Vedo che si fa troppo abuso sia della parola influencer sia del concetto di personal branding. Sembra che tutti, oggi, possano diventare delle star, invece non è così. Non basta incrementare i followers o applicare uno dei tanti modelli di personal branding per far vedere chi vogliamo essere. Innanzitutto il personal branding che funziona è quello che rispecchia comunque caratteristiche intrinseche della persona. Secondo, influencer è un concetto vuoto nella maggior parte dei casi. L’economia dell’influenza esiste da decenni non certo da oggi, sicuramente il web e qualche scorciatoia ha fatto in modo che molti potessero trarne beneficio, che comunque rimane effimero e nel breve periodo, salvo casi di successo clamoroso come Chiara Ferragni. Si tratta di ragazzi che fanno post e ricevono prodotti e le aziende, nella maggior parte dei casi, non vanno oltre questa attività che serve a ben poco, secondo il mio punto di vista. Diverso è il caso se si costruisce una strategia che riguardi micro-influencer e li si coinvolgano nella creazione di contenuto utili poi per la comunicazione aziendale.

Growth Hacking – Intervista a Raffaele Gaito

Quando ho conosciuto Raffaele era un giovanisismo startupper, fondatore insieme ad altri amici di Mangatar, nel corso degli anni poi ha lasciato quell’avventura per  diventare un Guru moderno specializzato in Growth Hacking e temi digitali.

Ecco l’intervista realizzata con Raffaele.

Anni fa si parlava di exit, di pivoting oggi invece tutti parlano di growth hacking? Cosa è?

In giro troverai decine di definizioni del Growth Hacking. Io personalmente lo definisco come una disciplina che mette insieme marketing, analisi dei dati e sviluppo del prodotto.
È una metodologia nata negli USA nel 2010 e che negli ultimi 3-4 anni è arrivata anche in Italia, ecco perché ne sentiamo parlare tanto.
È un mindset nel quale viene messo al centro di tutta la strategia la crescita e per fare ciò si procede con un metodo quasi scientifico basato su esperimenti e la cosa più importante di tutte per un imprenditore: i dati!
Per far capire velocemente di cosa si tratta ai miei clienti e ai miei studenti ripeto sempre questa frase: con il growth hacking il mio obiettivo è farti capire che prodotto e marketing non sono due cose separate (ma viaggiano di pari passo) e che nel business puoi fidarti di una sola cosa, i dati.

Quanto conta la “tecnica” e quanto altro?

Il growth hacking è un processo. Ciò significa che non è una formula magica e non è un approccio universale per risolvere i problemi. Anzi, è tutt’altro che “cool” e “sexy”, bisogna sporcarsi tanto le mani (sia sul prodotto che sul marketing) e passare tanto tempo sui numeri (leggi analytics ed excel).
In un contesto del genere la tecnica ha un’importanza minima, è un mezzo come un altro per raggiungere un obiettivo.
Anzi, più leggo in giro post con titoloni acchiappa click che si concentrano sulla tecnica e più cerco di riportare l’attenzione alle cose importanti: lo studio, la sperimentazione, il processo, il mindset, la multidisciplinarietà.
Siamo troppo abituati alle soluzioni veloci e siamo sempre alla ricerca delle scorciatoie e quindi non a tutti piace sentirsi dire che il growth hacking è un processo e come tale richiede tempo. Mi spiace, ma è così!
Bisogna tirarsi su le maniche, iniziare a raccogliere dati (qualitativi e quantitativi), parlare con i propri utenti, rimettere in dubbio qualsiasi elemento del proprio progetto e cominciare a testare in maniera costante ogni singolo aspetto del proprio business.

Come ci si prepara per fare il growth hacker?

Fino a qualche anno fa la situazione era abbastanza tragica perché non esistevano percorsi di studio pensati esclusivamente per il growth hacking e quindi quelli come me che hanno iniziato all’epoca lo facevano studiando le cose americane e sporcandosi le mani sui propri progetti.

Oggi la situazione è ben diversa, esistono diversi corsi online e offline dedicati alla figura del growth hacker e la cosa inizia a comparire anche in qualche percorso universitario (finalmente) dedicato al marketing e al business.
In linea di massima è importante capire che si tratta di una figura multidisciplinare (quella che nel mondo HR viene definito “profilo a T”) e che quindi riesce a combinare competenze di marketing con quelle di prodotto, di business, tecniche e così via.

Proprio per questo motivo nel mio libro [amazon_link asins=’8891753599′ template=’ProductAd’ store=’antoniosavare-21′ marketplace=’IT’ link_id=’c4dcbdac-d683-11e7-9df1-6f2b32a1b0f9′] ho dedicato un intero capitolo proprio a questo tema. È innegabile che il growth hacker (insieme al data scientist) sia la figura più richiesta sul mercato negli ultimi anni e di continuo ricevo la domanda “ma come divento growth hacker”. Ebbene, ho raccolto in un capitolo ad hoc tutta una serie di link, risorse, libri, corsi e altre informazioni utili per chi vuole intraprendere questa carriera.

Puoi citare due casi di successo? uno italiano ed uno estero?

Negli USA ce ne sono tantissimi perché, come dicevo sopra, ormai è un metodo che loro danno per scontato. Non esistono startup che non fanno growth hacking, è una cosa che una volta scoperta non puoi tornare indietro.

Lascio perdere i casi classici fin troppo abusati di Dropbox, Airbnb, Hotmail e così via per segnalarti Spotify! Spotify è un bellissimo caso studio di Growth Hacking in un settore (come quello della musica) che non vedeva innovazione seria da diversi anni.

Proprio ultimamente ho trattato questo caso studio sul mio blog dove si può notare come una crescita del genere non è basata tutta su attività di marketing, ma in buona parte su aspetti di business e di prodotto.

Uno dei casi italiani più interessanti è sicuramente Ludwig, una startup nostrana che ha realizzato un bellissimo tool che aiuta a scrivere meglio in inglese. Loro hanno fatto da 0 a 1 milione di utenti in 6 mesi proprio utilizzando il growth hacking: sperimentazione continua, analisi costante dei dati, feedback degli utenti, e così via.
Anche di questo caso studio ho parlato qualche settimana fa sul mio blog, in un post dove ho intervistato il CEO.

Questa metodologia è applicabile solo alle startup?

Assolutamente no! Inevitabilmente è una metodologia nata in quell’ambiente perché si tratta di un contesto con scarsità di risorse, denaro e tempo in primis. Una volta capito le potenzialità della cosa anche le grandi aziende hanno iniziato ad utilizzare questo approccio.
Tra i primi big a farlo proprio ci son stati Facebook e LinkedIn, ma oggi anche aziende che non appartengono al mondo del digitale o del tech stanno iniziando a creare un dipartimento growth hacking, così come siamo abituati a un dipartimento marketing.
Un caso classico, di cui si è parlato tantissimo negli ultimi mesi è quello di Coca-Cola che durante quest’estate ha annunciato di aver sostituito il CMO (direttore marketing) con il CGO (growth hacker).
Una scelta del genere porta dietro un paradigma importante: si passa dal “focus sul marketing” al “focus sulla crescita”.

Tale metodologia di crescita è applicabile solo all’online?

La risposta, in parte l’ho data già nella domanda precedente. Così come non si tratta di una metodologia riservata solo alle startup è altrettanto falso che si possa utilizzare solo in contesti digitali e online.
Oltre Coca-Cola, ti cito anche IBM (hardware), Heineken (food), ING (Finance) e così via…

Dicci una pratica o un tool per iniziare.

Se rispondessi a questa domanda verrei meno a tutto quello che ho detto fino ad ora. Bisogna capire che è prima di tutto una questione di mindset e di processo.
Quindi provo a rispondere in parte, modificando leggermente la prospettiva. Ti dico qual è il primo step da cui iniziare.
Senza ombra di dubbio dovete iniziare a dialogare con i vostri utenti e i vostri clienti. Sembra una banalità, ma non lo è… semplicemente perché nessuno lo fa o i pochi che lo fanno lo fanno male, in maniera non strutturata.
Se immaginiamo l’azienda come un motore, allora i dati sono il carburante e i primi dati che vanno raccolti, sono appunto i feedback degli utenti.
Se in azienda avete qualcuno che si occupa di customer care (risponde alla mail, risolve i ticket aperti, prende le telefonate, gestisce i commenti sui social, ecc.) sappiate che è la persona con il ruolo più importante in azienda.
Iniziate a coinvolgerlo di più nel proceso di sviluppo del business, fatevi passare i dati che raccoglie e, perché no, una volta a settimana mettetevi nei suoi panni e provate a dialogare voi con gli utenti.
Vi cambierà completamente la visione del vostro progetto, promesso!

 

 

Raffaele Gaito – Imprenditore Digitale, Growth Hacker, Startup Mentor, Blogger. A 15 anni ho scritto la mia prima riga di codice, a 17 ho aperto il mio primo blog e a 20 ho lanciato la mia prima azienda. Da allora non mi sono più fermato.
Oggi affianco Startup, Aziende e Professionisti con consulenza su tematiche di Marketing e di Prodotto, attività che spesso confluiscono in quello che oggi viene definito Growth Hacking.
Di queste stesse tematiche scrivo sul blog raffaelegaito.com che è un punto di riferimento in Italia per chi lavora nel digitale.

Engagement Rate, come misurare il ROI di una strategia social

 

“Le aziende nell’era del web 2.0 devono adattarsi a delle regole fatte dai consumatori e ad un linguaggio nuovo.”

Attraverso l’analisi di centinaia di pagine fan di Facebook  FrozenFrogs ha individuato un indice di coinvolgimento in grado di misurare l’efficacia degli investimenti sui Social Network. Il metro di giudizio è l’Engagement Rate (E.R.), che permette di misurare quanto gli utenti interagiscano con il brand e, soprattutto, quali siano i driver di comunicazione e di coinvolgimento più efficaci. Dall’analisi condotta appare una situazione frammentata con risultati che variano tra settori ed aziende. Ne abbiamo parlato con Gianluca Arnesano  – Founder   di Frozenfrogs:

Leggi tutto “Engagement Rate, come misurare il ROI di una strategia social”

Il consumatore è Mobile: il Marketing e i Servizi lo inseguono

School of Management del Politecnico di Milano, 2008 – Questo secondo Rapporto è basato su circa 200 casi di studio che hanno coinvolto tutti i principali attori della filiera (Investitori Pubblicitari, Centri Media, Agenzie Creative, Concessionarie, Operatori Telefonici e Service Provider e altri player del Mercato IT) e su una survey che ha coinvolto oltre 100 Investitori Pubblicitari (Direttori Marketing e CIO) di medie e grandi imprese operanti in Italia. Da un lato si è osservato un notevole incremento del numero di imprese (e pubbliche amministrazioni) che hanno iniziato ad utilizzare questi nuovi strumenti di Marketing e Service, dall'altro si evidenzia una certa crescita della maturità – in alcune aziende più evolute – nell'utilizzare questi strumenti in modo più strategico: per seguire il cliente lungo tutto il ciclo della relazione con l'azienda (dall'ingaggio al post acquisto), in una logica continuativa nel tempo e integrata con gli altri canali.

Per scaricare il rapporto dalla Sezione Premium del sito www.osservatori.net clicca qui

Keywords advertising – I contenuti killer del web

Tariffe più economiche o voli a basso costo? Sui siti Internet è importante scegliere le parole giuste per arrivare a “colpire” l’utente: quelle maggiormente cercate.
Vi segnalo un interessante articolo di Jerry McGovern http://www.datamanager.it/articoli.php?visibile=1&idricercato=25251

SEO – Search Engine Marketing

Gianluca Arnesano, studia a Napoli laureandosi nel 1999 in Economia del Commercio Internazionale e dei Mercati Valutari, con la Tesi in Marketing sulla Comunicazione nell' Ambiente Ipermediale. Attualmente è Responsabile Marketing e Comunicazione di Ad Maiora S.p.A e svolge parallelamente attività di formazione e divulgazione su temi di Marketing ed E-Business. A lui abbiamo posto alcune domande:

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Un motore che sa dove andare: i segreti di Google

Massimiliano Magrini, classe 1968, si laurea in Scienze Politiche all’Università di Bologna, ottenendo successivamente la specializzazione in Sociologia della Comunicazione. Dal 1998 al 2000, Magrini lavora per “Il Sole 24 Ore”, dove sviluppa e gestisce il portafoglio clienti del settore Finanziario, Telecomunicazione e New Media. Dopo aver concluso la sua esperienza come Direttore Sales & Business Development di Altavista Italia, diviene nel 2002 Direttore Commerciale di Google Italia. A lui abbiamo posto alcune domande.

Leggi tutto “Un motore che sa dove andare: i segreti di Google”

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