Growth Hacking – Intervista a Raffaele Gaito

Quando ho conosciuto Raffaele era un giovanisismo startupper, fondatore insieme ad altri amici di Mangatar, nel corso degli anni poi ha lasciato quell’avventura per  diventare un Guru moderno specializzato in Growth Hacking e temi digitali.

Ecco l’intervista realizzata con Raffaele.

Anni fa si parlava di exit, di pivoting oggi invece tutti parlano di growth hacking? Cosa è?

In giro troverai decine di definizioni del Growth Hacking. Io personalmente lo definisco come una disciplina che mette insieme marketing, analisi dei dati e sviluppo del prodotto.
È una metodologia nata negli USA nel 2010 e che negli ultimi 3-4 anni è arrivata anche in Italia, ecco perché ne sentiamo parlare tanto.
È un mindset nel quale viene messo al centro di tutta la strategia la crescita e per fare ciò si procede con un metodo quasi scientifico basato su esperimenti e la cosa più importante di tutte per un imprenditore: i dati!
Per far capire velocemente di cosa si tratta ai miei clienti e ai miei studenti ripeto sempre questa frase: con il growth hacking il mio obiettivo è farti capire che prodotto e marketing non sono due cose separate (ma viaggiano di pari passo) e che nel business puoi fidarti di una sola cosa, i dati.

Quanto conta la “tecnica” e quanto altro?

Il growth hacking è un processo. Ciò significa che non è una formula magica e non è un approccio universale per risolvere i problemi. Anzi, è tutt’altro che “cool” e “sexy”, bisogna sporcarsi tanto le mani (sia sul prodotto che sul marketing) e passare tanto tempo sui numeri (leggi analytics ed excel).
In un contesto del genere la tecnica ha un’importanza minima, è un mezzo come un altro per raggiungere un obiettivo.
Anzi, più leggo in giro post con titoloni acchiappa click che si concentrano sulla tecnica e più cerco di riportare l’attenzione alle cose importanti: lo studio, la sperimentazione, il processo, il mindset, la multidisciplinarietà.
Siamo troppo abituati alle soluzioni veloci e siamo sempre alla ricerca delle scorciatoie e quindi non a tutti piace sentirsi dire che il growth hacking è un processo e come tale richiede tempo. Mi spiace, ma è così!
Bisogna tirarsi su le maniche, iniziare a raccogliere dati (qualitativi e quantitativi), parlare con i propri utenti, rimettere in dubbio qualsiasi elemento del proprio progetto e cominciare a testare in maniera costante ogni singolo aspetto del proprio business.

Come ci si prepara per fare il growth hacker?

Fino a qualche anno fa la situazione era abbastanza tragica perché non esistevano percorsi di studio pensati esclusivamente per il growth hacking e quindi quelli come me che hanno iniziato all’epoca lo facevano studiando le cose americane e sporcandosi le mani sui propri progetti.

Oggi la situazione è ben diversa, esistono diversi corsi online e offline dedicati alla figura del growth hacker e la cosa inizia a comparire anche in qualche percorso universitario (finalmente) dedicato al marketing e al business.
In linea di massima è importante capire che si tratta di una figura multidisciplinare (quella che nel mondo HR viene definito “profilo a T”) e che quindi riesce a combinare competenze di marketing con quelle di prodotto, di business, tecniche e così via.

Proprio per questo motivo nel mio libro [amazon_link asins=’8891753599′ template=’ProductAd’ store=’antoniosavare-21′ marketplace=’IT’ link_id=’c4dcbdac-d683-11e7-9df1-6f2b32a1b0f9′] ho dedicato un intero capitolo proprio a questo tema. È innegabile che il growth hacker (insieme al data scientist) sia la figura più richiesta sul mercato negli ultimi anni e di continuo ricevo la domanda “ma come divento growth hacker”. Ebbene, ho raccolto in un capitolo ad hoc tutta una serie di link, risorse, libri, corsi e altre informazioni utili per chi vuole intraprendere questa carriera.

Puoi citare due casi di successo? uno italiano ed uno estero?

Negli USA ce ne sono tantissimi perché, come dicevo sopra, ormai è un metodo che loro danno per scontato. Non esistono startup che non fanno growth hacking, è una cosa che una volta scoperta non puoi tornare indietro.

Lascio perdere i casi classici fin troppo abusati di Dropbox, Airbnb, Hotmail e così via per segnalarti Spotify! Spotify è un bellissimo caso studio di Growth Hacking in un settore (come quello della musica) che non vedeva innovazione seria da diversi anni.

Proprio ultimamente ho trattato questo caso studio sul mio blog dove si può notare come una crescita del genere non è basata tutta su attività di marketing, ma in buona parte su aspetti di business e di prodotto.

Uno dei casi italiani più interessanti è sicuramente Ludwig, una startup nostrana che ha realizzato un bellissimo tool che aiuta a scrivere meglio in inglese. Loro hanno fatto da 0 a 1 milione di utenti in 6 mesi proprio utilizzando il growth hacking: sperimentazione continua, analisi costante dei dati, feedback degli utenti, e così via.
Anche di questo caso studio ho parlato qualche settimana fa sul mio blog, in un post dove ho intervistato il CEO.

Questa metodologia è applicabile solo alle startup?

Assolutamente no! Inevitabilmente è una metodologia nata in quell’ambiente perché si tratta di un contesto con scarsità di risorse, denaro e tempo in primis. Una volta capito le potenzialità della cosa anche le grandi aziende hanno iniziato ad utilizzare questo approccio.
Tra i primi big a farlo proprio ci son stati Facebook e LinkedIn, ma oggi anche aziende che non appartengono al mondo del digitale o del tech stanno iniziando a creare un dipartimento growth hacking, così come siamo abituati a un dipartimento marketing.
Un caso classico, di cui si è parlato tantissimo negli ultimi mesi è quello di Coca-Cola che durante quest’estate ha annunciato di aver sostituito il CMO (direttore marketing) con il CGO (growth hacker).
Una scelta del genere porta dietro un paradigma importante: si passa dal “focus sul marketing” al “focus sulla crescita”.

Tale metodologia di crescita è applicabile solo all’online?

La risposta, in parte l’ho data già nella domanda precedente. Così come non si tratta di una metodologia riservata solo alle startup è altrettanto falso che si possa utilizzare solo in contesti digitali e online.
Oltre Coca-Cola, ti cito anche IBM (hardware), Heineken (food), ING (Finance) e così via…

Dicci una pratica o un tool per iniziare.

Se rispondessi a questa domanda verrei meno a tutto quello che ho detto fino ad ora. Bisogna capire che è prima di tutto una questione di mindset e di processo.
Quindi provo a rispondere in parte, modificando leggermente la prospettiva. Ti dico qual è il primo step da cui iniziare.
Senza ombra di dubbio dovete iniziare a dialogare con i vostri utenti e i vostri clienti. Sembra una banalità, ma non lo è… semplicemente perché nessuno lo fa o i pochi che lo fanno lo fanno male, in maniera non strutturata.
Se immaginiamo l’azienda come un motore, allora i dati sono il carburante e i primi dati che vanno raccolti, sono appunto i feedback degli utenti.
Se in azienda avete qualcuno che si occupa di customer care (risponde alla mail, risolve i ticket aperti, prende le telefonate, gestisce i commenti sui social, ecc.) sappiate che è la persona con il ruolo più importante in azienda.
Iniziate a coinvolgerlo di più nel proceso di sviluppo del business, fatevi passare i dati che raccoglie e, perché no, una volta a settimana mettetevi nei suoi panni e provate a dialogare voi con gli utenti.
Vi cambierà completamente la visione del vostro progetto, promesso!

 

 

Raffaele Gaito – Imprenditore Digitale, Growth Hacker, Startup Mentor, Blogger. A 15 anni ho scritto la mia prima riga di codice, a 17 ho aperto il mio primo blog e a 20 ho lanciato la mia prima azienda. Da allora non mi sono più fermato.
Oggi affianco Startup, Aziende e Professionisti con consulenza su tematiche di Marketing e di Prodotto, attività che spesso confluiscono in quello che oggi viene definito Growth Hacking.
Di queste stesse tematiche scrivo sul blog raffaelegaito.com che è un punto di riferimento in Italia per chi lavora nel digitale.

New Internet: balzo del 90% del fatturato

 

Nuovi scenari per i media nella loro corsa verso la digitalizzazione

Forte crescita del mercato dei contenuti e dell’adv nei canali video online, social network, applicazioni, smartphone e tablet

 

 Martedì 19 marzo 2013 – ore 10

Aula Carlo de Carli – Politecnico di Milano
(Campus Bovisa) Via Durando 10

   

    Accredito stampa su iPress, network professionale per giornalisti, blogger e uffici stampa, a questo link 

 

 Quanto vale il mercato dei Media digitali in Italia nel 2012 e quali sono i trend attesi per il 2013? 

Qual è il ruolo dei nuovi device (Tablet, Smartphone e Connected Tv) e quanto incidono i Social Network e i Video sul mercato dell’advertising online

Come si comporta il “consumatore digitale” italiano e quali device predilige per fruire di contenuti Media durante la giornata? 

Quali sono le principali novità tecnologiche? 

Quali sono i segnali che provengono dal mondo delle startup in questo settore?

 

Questi alcuni dei temi che verranno affrontati all’evento di presentazione della Ricerca dell’Osservatorio New Media & New Internet, promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano, in collaborazione con Cefriel

 

Cliccare qui per scaricare il programma completo.

 

La Ricerca dell’Osservatorio New Media & New Internet è stata realizzata in collaborazione con CEFRIEL e con il supporto di: Accenture, Cisco Systems, Digitalia ’08, Digitouch, Doxa, Facebook, Fastweb, IlSole24Ore, LA7, Mediamond, Publitalia ’80, Rai, RCS Mediagroup, RTI Interactive Media, Samsung, Sipra, Telecom Italia; Capgemini, Mamadigital, Vodafone. 

 

Contante addio: l’Italia è pronta a passare al Mobile Payment

L’Italia è pronta al balzo in avanti nel Mobile Proximity Payment, il pagamento tramite avvicinamento al POS del cellulare NFC (Near Field Communication): ben 2,5 milioni di telefoni NFC già venduti, 2 milioni di carte di pagamento contactless già emesse, piani definiti per l’attivazione di oltre 170.000 POS a fine 2013.

A partire dal primo pomeriggio, a questo link saranno disponibili i video con le demo delle soluzioni di Mobile Payment presentate

Milano, 21 febbraio 2013 – Dopo una fase iniziale di ampia diffusione degli smartphone ma di limitata disponibilità di servizi per il loro utilizzo per finalizzare gli acquisti, si sta finalmente affermando in Italia l’utilizzo del Mobile Payment. È quanto emerge dalla fotografia scattata dall’Osservatorio NFC & Mobile Payment del Politecnico di Milano*. I dati della ricerca, presentata a Milano presso il Campus Bovisa in occasione del Convegno “Mobile Payment, l’Italia s’è desta!”, mostrano un mercato in forte crescita che prosegue il trend molto positivo già delineato nel 2011.

Alla base della diffusione del Mobile Payment in Italia ci sono tre fattori chiave: lacrescita del 20% dei servizi che consentono di completare gli acquisti online attraverso il telefono cellulare, come il pagamento dei bollettini postali e del canone Rai ma anche dei parcheggi e delle corse degli autobus; la disponibilità della tecnologia che permette di usufruire di questi servizi trasformando il proprio cellulare in un bancomat, grazie all’intesa operativa raggiunta a Ottobre dalle principali Telco italiane (Telecom Italia, Vodafone, Wind, H3g e Poste Mobile) sull’impiego della SIM NFC (Near Field Communication); una legislazione che incentiva l’uso dei pagamenti elettronici, posta alla ribalta con i decreti “SalvaItalia” e “Sviluppo-bis”.

In questo contesto, l’attaccamento degli italiani al contante vacilla: nel 2012 quasi un miliardo di euro è stato pagato dagli italiani utilizzando il cellulare come strumento di attivazione del pagamento.
Il Mobile Remote Payment & Commerce passa infatti da 700 milioni di € nel 2011 a oltre 900 milioni di € nel 2012, registrando una crescita del +30%.

Di questi, ben 470 milioni di € derivano dall’utilizzo del Mobile Payment per l’acquisto dei contenuti digitali per gli smartphone, in crescita del 15% rispetto al 2011: gli italiani abbandonano infatti l’acquisto di contenuti tramite SMS (in calo del 12%) ma si rivolgono agli appstore per effettuare acquisti di app, in crescita del 20%.

L’utilizzo del Mobile Remote Payment & Commerce per beni e servizi registra invece una straordinaria crescita del 60% raggiungendo un valore di circa 310 milioni di €.
Contribuisce a questo successo la crescita del Mobile Remote Commerce, ovvero gli acquisti online che implicano anche l’uso del cellulare in una o più fasi.

Turismo e trasporti, coupon, aste e gruppi di acquisto sono i settori più attivi (86% del valore delle transazioni): il Mobile si conferma così un canale ottimale per veicolare quegli acquisti dove è importante per i consumatori cogliere un’occasione essendo online in un preciso istante.
E diversi negozianti stanno cogliendo a loro volta questa opportunità: su un campione di oltre 200 tra i principali esercenti attivi nell’eCommerce, 1 esercente su 3 ha puntato anche sul canale Mobile (nel 2011 era 1 esercente su 5). Il 55% dei player attivi ha sviluppato sia l’App sia il Mobile site.

Il pagamento diretto con cellulare a fronte di un servizio raggiunge un valore pari a 130 dei 310 milioni di € del Mobile Remote Payment & Commerce per beni e servizi. L’80% circa di questo importo è stato speso per acquistare ricariche telefoniche e pagare i bollettini, ad esempio il canone Rai o i bollettini postali.
Il restante 20% è stato utilizzato per pagare servizi soprattutto nell’ambito della mobilità, come il pagamento della sosta, dei biglietti del trasporto pubblico locale, e di taxi, car&bike sharing e ztl.

E proprio questo utilizzo può diventare la “killer application” in grado di diffondere il mobile payment. Si stima, infatti, che siano oltre 700.000 le ore di parcheggio pagate dagli italiani attraverso il cellulare, oltre 600.000 i biglietti di corsa semplice e qualche migliaio le ricariche degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale attivate da Mobile, mentre le corse di taxi pagate con cellulare sono quasi 10.000. Per un totale di oltre 1 milione di transazioni di piccolo importo.

Gli ultimi 150 milioni di € del valore del mercato Mobile Remote Payment & Commerce, derivano dalle attività di Mobile Money Transfercresciute del 50% nel 2012: l’84% è rappresentato dall’acquisto di ricariche di carte prepagate, il 13% dal trasferimento di credito telefonico e solo il 3% da “vero e proprio” Mobile Money Transfer p2p.

 

Fonte: Osservatorio NFC & Mobile Payment del Politecnico di Milano, febbraio 2013

L’affermazione del pagamento tramite cellulare in Italia è però legata soprattutto allo sviluppo del Mobile Proximity Payment, l’opportunità di utilizzare lo smartphone come una carta di credito mediante l’impiego della SIM NFC.

L’accordo firmato a ottobre 2012, in concomitanza con il GSMA NFC Mobile Money Summit, dagli operatori telefonici nazionali ha permesso la realizzazione di una piattaforma comune dedicata al pagamento. E se il 2013 si preannuncia come l’anno dell’affermazione definitiva, il 2012 è stato l’anno del lancio di numerose sperimentazioni nel Mobile Proximity Payment.

Focalizzando la nostra attenzione sulla variante NFC Card Present, abbiamo misurato gli asset essenziali su cui, già adesso, si può contare in Italia”, affermano Valeria Portale e Giovanni Miragliotta, Responsabili dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment. “A fine 2012, vi erano circa 30.000 terminali POS NFC attivi, partendo dai circa 5.000 del 2011, e gli impegni già assunti dagli attori dell’ecosistema portano a stime conservative, per fine 2013, di oltre 170.000 POS operativi (più del 10% del totale). Sempre a fine 2012 si contavano circa 2,5 milioni di telefoni NFC già venduti che, secondo le nostre stime più conservative (in termini di spesa pro-capite per la sostituzione del parco telefoni e di scelta di Apple per il prossimo iPhone)diverranno circa 6,0 milioni a fine 2013. Infine, dal 2011 al 2012 le carte contactless circolanti sono passate da 750.000 ad oltre 2 milioni, con piani molto aggressivi sulle nuove emissioni e sulle sostituzioni. Sono passi da gigante, se si considera la scala temporale su cui sono misurati, che ci portano a dire che in Italia, ma anche in Europa, il “punto angoloso” della curva di diffusione dell’NFC è alle nostre spalle

L’evoluzione attuale del mercato permette di tratteggiare due scenari di sviluppo del Mobile Payment nei prossimi tre anni, legati alla modalità tiepida o convinta con cui gli attori dell’ecosistema gestiranno la creazione di servizi e la diffusione di tecnologia per fruirli. 

Secondo la simulazione del Politecnico di Milano, a fine 2016 e con riferimento ai due scenari già menzionati, il numero di utenti che pagheranno mediante una soluzione di Mobile Proximity Payment, oscillerà tra 6,0 e 10,3 milioni di utenti, a fronte di un parco cellulari NFC medio che supera i 25 milioni di unità: il parco esercenti dotati di POS NFC oscillerà tra 405.000 e 610.000, caso quest’ultimo che mantiene nel tempo dinamiche di crescita simili al 2013, già notevoli.
Da queste stime emerge come nello scenario “tiepido”, il valore dei pagamenti mediante Mobile Proximity Payment  al 2016 sarà di 4,7 miliardi di euro, dei quali 1,5 miliardi verranno effettuati nei micro-pagamenti. Nello scenario in cui gli attori sono convinti dell’investimento in questa nuova modalità di pagamento, il transato intercettato salirebbe a 10,8 miliardi di euro (+130%), di cui 4,3 miliardi di micro-pagamenti (+187%). 

“Se singolarmente telco, issuer o acquirer lavorassero al massimo delle proprie possibilità, avendo dagli altri attori una risposta attendista, non si otterrebbero neppure lontanamente i risultati prospettati nello scenario in cui gli attori sono convinti”, commenta Alessandro Perego, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment.
Ed un euro investito da un ecosistema coordinato rende, in termini di capacità di intercettare il transato, il 140 % in più di un euro speso da un attore isolato. Considerando che il totale delle transazioni oggi regolate in Italia per mezzo di contanti è stimabile in circa 400 miliardi di euro l’anno, gli spazi, anche nello scenario più “convinto” sono davvero enormi, e saranno colti – pensiamo rapidamente – negli anni a venire. L’importante, adesso, è seminare nella direzione che assicuri la massima velocità di crescita”.

E sono già molte le iniziative lanciate nel 2012 o programmate nel 2013, frutto della collaborazione “convinta” tra telco, issuer o acquirer. Nel corso della sessione pomeridiana della presentazione dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment ne verrà presentata una selezione che include Bemoov (Consorzio Movincom),  Day Tronic Mobile (Day Ristoservice), Mobile Ticketing (Netsize), Move and Pay (Intesa Sanpaolo), Pay On Delivery (PayPal), QR Money (CartaSi), Quick POS (CartaSi, Ingenico Italia), Servizi Remote & Proximity di PosteMobile, TIM Wallet (Telecom Italia), myworkspace (Univerce), Vodafone Smart PASS NFC (Vodafone Italia, CartaSi, SIA), YouPass BNL (Vodafone Italia, 3 Italia, SIA) e Auriga.

  • L’edizione 2013 dell’Osservatorio NFC & Mobile Payment è realizzata con il supporto di: Auriga, CartaSi, CheBanca!, Movincom, Day Ristoservice, Edenred Italia, Ingenico, Intesa Sanpaolo, modomodo, Neomobile, Netsize, OPENTECH, PayPal, PosteMobile, Samsung, Sensei, SIA, Telecom Italia, TotalErg, Ubiquity, Univerce e Vodafone; 3 Italia, Banca Marche, Banca Popolare di Sondrio, Banca Sella, Capgemini, Cashlog, Centili, Comesterogroup, D2, InfoCert, Konvergence, Lottomatica Servizi, Lynx, Nòverca Italia, Oberthur Technologies, RetAPPs, Research In Motion, StMicroeletronics

Una ricerca analizza come i responsabili HR vengono percepiti dal management delle aziende europee

Secondo lo studio della Economist Intelligence Unit, CEO e CFO riconoscono il valore della relazione con i responsabili HR ma auspicano un maggiore coinvolgimento, allineamento e comprensione della strategia di business

La notizia

Uno studio recentemente condotto dalla Economist Intelligence Unit (EIU) e sponsorizzato congiuntamente da Oracle e IBM ha analizzato come i top manager delle aziende europee percepiscano il ruolo dei responsabili delle Risorse Umane. L’analisi è stata realizzata per identificare le aree di opportunità per i responsabili delle Risorse Umane che vogliano aiutare le rispettive organizzazioni a raggiungere gli obiettivi strategici.
L’Economist ha intervistato 235 top manager, 95 dei quali basati in Paesi dell’Europa Occidentale come Belgio, Francia, Germania, Italia, Svizzera e Regno Unito. Il 57% del campione appartiene alla categoria dei CEO o ruoli equivalenti, e il 43% a quella dei CFO o ruoli equivalenti.
Lo studio “C-level perspectives of the HR function in Western Europe” evidenzia che sono molti i CEO e i CFO per i quali la competenza e l’esperienza della funzione HR circa le criticità relative al personale possono aiutare realmente un’azienda ad assumere decisioni complesse ma cruciali in periodi economicamente difficili.
Lo studio ha anche confermato come il management delle aziende europee consideri di valore la propria relazione con i responsabili HR: nel 69% dei casi gli intervistati hanno descritto tale rapporto lavorativo come “collaborativo e di fiducia” e nel 63% lo hanno definito “di elevato valore”.
L’analisi rivela però come ci sia comunque un margine di miglioramento affinché la funzione Risorse Umane diventi ancora più strategica. Solo il 38% degli intervistati ritiene infatti che il responsabile HR svolga un ruolo chiave nella pianificazione strategica e solo uno su dieci pensa che tale ruolo sia “assolutamente determinante”.
Come i responsabili HR dell’Europa Occidentale possono posizionarsi meglio in un’ottica di successo

La maggioranza degli intervistati ha espresso preoccupazione rispetto alla effettiva capacità dei responsabili delle Risorse Umane di comprendere le dinamiche business nella loro globalità. Per il 42% il responsabile HR resta infatti troppo focalizzato sui processi e incapace di cogliere lo scenario complessivo, mentre per il 36% non comprende a sufficienza il business aziendale.
L’analisi mostra inoltre come i responsabili HR che hanno punti di vista simili a quelli dei CEO e dei CFO hanno altresì maggiori probabilità di risultare influenti. In effetti, l’81% di coloro che appoggiano pienamente la strategia HR attuata dal relativo responsabile di funzione ritiene che quest’ultimo ricopra una posizione strategica fondamentale.
I top manager delle società di grandi dimensioni risultano maggiormente preoccupati da possibili criticità relative alle risorse umane che possono condurre a una carenza di leadership. Oltre due terzi degli intervistati che operano in imprese con più di 1.500 dipendenti teme che una mancanza di di leadership possa danneggiare finanziariamente l’azienda nei prossimi 12 mesi; tale preoccupazione è condivisa solo dal 49% di coloro che lavorano invece presso realtà più piccole.
Un altro dato interessante è come il top management delle aziende più grandi tra quelle intervistate (fatturato annuo superiore ai 10 miliardi di dollari) discuta con maggiore frequenza le problematiche di talent management con i propri responsabili delle risorse umane. Il 42% degli intervistati che appartengono alle società più grandi afferma infatti di avere frequenti occasioni di confronto relative alle performance e allo sviluppo del Management, rispetto al 24% degli intervistati delle imprese di dimensioni inferiori.
Pertanto, il responsabile HR ha l’opportunità di influenzare sensibilmente la direzione strategica della propria azienda laddove:
lavori presso un’organizzazione di grandi dimensioni;
sia capace di pensiero strategico, in particolare nello sviluppo di personale di livello senior;
sappia condividere idee analoghe al CEO e al CFO in materia di strategia HR.
Dichiarazione a supporto
“Non sorprende vedere come la maggiore preoccupazione degli executive che lavorano presso grandi società sia costituito dalla strategia e dallo sviluppo di talento a livello di leadership”, ha commentato Gretchen Alarcon, Vice Presidente, Oracle HCM Strategy. “I responsabili HR possono provare il loro valore a CEO e CFO focalizzando l’attenzione su strategie finalizzate a favorire il talento nelle figure senior e a trattenere i migliori leader già presenti in azienda”.
IBM è membro Diamond di Oracle PartnerNetwork (OPN).

Risorse a supporto

 

Make or buy?

Quando ero all’università mi hanno insegnato che quando stava per partire un progetto una delle fasi dell’analisi necessarie era capire se alcune componenti che servivano era più conveniente realizzarle in casa oppure comprarle.

Bene signori nel mondo IT tutto ciò non serve, sopratutto oggi, è inutile valutare, l’unica scelta possibile è buy. Con questa provocazione intendo affermare che non esistono più gli artigiani del software , nessuno più sviluppa da zero del codice, nessuno più realizza nuovi programmi, oggi o si comprano sw sul mercato o tuttalpiù si ricorre a sw OS che è libero ed in molti casi anche gratis ma cmq è stato sviluppato da altri.

Di fatto siamo diventati tutti degli integratori, senza un framework siamo persi, senza una libreria non sappiamo cosa fare.

Certo qualcuno di Voi mi dirà che però cosi si favorisce la riusabilità del codice, che i costi si abbassano, vero ma siamo sicuri che questo modo di fare sia un bene?

Qualcuno in altri post parlava del nostro futuro, della ns.categoria di informatici, beh che ne sarà se continueremo solo ad integrare cose fatte dagli altri?

Serve davvero una Banca per innovare?

Oggi girando in Rete ho visto questa bella intervista a Gianluca Dettori realizzata da Wired – http://italianvalley.wired.it/news/altri/perche-ci-serve-una-banca-nazionale-dell-innovazione.html 

In sostanza Gianluca afferma che per dare slancio all'innovazione sarebbe utile uno strumento classico e old style ovvero una Banca.

“Una struttura che usi la mentalità del venture capital privato per promuovere le idee migliori. A livello pratico penso a un gruppo di professionisti che, con l’apporto sia del pubblico che del privato, selezioni i progetti migliori, o banalmente aiuti nella progettazione tutti quegli enti che hanno buone idee, ma non hanno gli strumenti per realizzarle”.

Siamo davvero convinti che sia questa la soluzione? Io ho qualche dubbio e Voi?

The best IT strategy is no IT strategy?

Girando in Rete mi sono ritrovato a leggere questo post:

 

http://blogs.techrepublic.com.com/tech-manager/?p=3744&tag=nl.e042#comments

 

dove si afferma che non serve elaborare una strategia IT , per avere successo basta aiutare la propria azienda a raggiungere gli obiettivi prefissati e ciò a volte può voler dire anche non necessariamente aver bisogno di un mega piano It o dell'ultima tecnologia di grido, ma semplicemente supportare l'azienda fornendo strumenti utili e necessari.

 

Insomma sempre di più si va verso l'IT Alignment o verso quel nuovo fenomeno che alcuni definiscono Business Technology, è proprio così? Voi cosa ne pensate?

La metodologia del Lean & Digitize

Bernardo Nicoletti, “La metodologia del Lean & Digitize”, FrancoAngeli, Milano, 2010, pag. 320, € 37
 
e

Bernardo Nicoletti, “Gli strumenti del Lean & Digitize”, FrancoAngeli, Milano, 2010, pag. 368, € 44.

 
 

In situazioni di crisi, è essenziale accrescere il valore dei propri prodotti e servizi per raggiungere l’eccellenza. Una strada efficace, efficiente ed economica per ottenere questi obiettivi è l’utilizzo della metodologia del Lean Six Sigma e il ricorso all’automazione dei processi. Non esistono però metodologie per trattare le due problematiche in maniera integrata.

In questi due volumi, si presenta una metodologia integrata e gli strumenti per la sua applicazione utili per ottenere la soddisfazione dei clienti, dei soci e del personale. La metodologia è indicata come Lean & Digitize. Essa è basata sul principio di snellire prima di tutto i processi e poi automatizzarli.

Leggi tutto “La metodologia del Lean & Digitize”

Enterprise 2.0 – sogno o realtà?

Il termine Enterprise 2.0 è riferito all'utilizzo di tecnologie Web 2.0: dentro le imprese, per favorire la collaborazione tra le persone, lo scambio e la condivisione delle informazioni, all'esterno delle imprese per stabilire relazioni con il mercato basate sulla conversazione tra persone piuttosto che sulla comunicazione commerciale e marketing tradizionale. 

L'adozione di queste tecnologie è legata alla gestione di processi interni all'organizzazione o alla vendita/promozione del marchio e dei prodotti sul mercato.


L'Enterprise 2.0 porta a un cambiamento nelle persone e nei processi organizzativi tutto ciò è discusso nel report:"Industry Watch: Collaboration and Enterprise 2.0 – work meets play or the future of business?" pubblicato dall'AIIM – http://www.aiim.org/Research/Collaboration-Enterprise20-Research.aspx


La domanda a cui rispondere è quando i CIO e le aziende in Italia inizieranno davvero a trasformare i processi di business adattandoli alle nuove tecnologie, si lo so molti diranno e il ROI?

Il ROI è un parametro importante ma ritengo non il solo da tenere in considerazione e poi anche in tal senso ci sono molti studi che dimostrano il valore dell'enterprise 2.0.


o


Voi cosa ne pensate?

Budget ridotti nell’IT, come reagisce il CIO?

Nel 2009 la recessione economica ha influito sui budget IT: il 70% dei CIO ha subito un decremento di budget dell’ordine medio del 15%.

I CIO dichiarano di aver utilizzato la crisi per dimostrare il valore dell’IT all’interno della loro azienda: il 55% si è dedicato ad accelerare quei progetti con maggiore impatto sul business e il 34% investe principalmente su iniziative che permettono di rispondere al meglio alle nuove condizioni di mercato.(Fonte: Global CIO Report di Capgemini)

Qual è la vostra esperienza, cosa è successo nelle vs.aziende?

segui la discussione su Linkedin:

http://www.linkedin.com/answers?viewQuestion=&questionID=653373&askerID=868881&goback=.hom.mid_1931019222 

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